Amelia Barbui
Muri di vetro, muri di gomma, muri abbelliti, muri dipinti.
Muri bianchi, sui quali si proiettano le ombre.
Muri dove scrivere, dove lasciare messaggi, dove nascondere segreti.
Muri confini, muri schermi, muri che nascondono, che proteggono e che suscitano il desiderio di sapere cosa c’è al di là e che incitano alla violazione.
Muri che celano il più intimo e il più estraneo di ciascuno di noi.
Muri che dividono, che separano, che delimitano spazi da organizzare, ma anche muri che si aprono con porte segrete.
Muri reali, quelli del nostro quotidiano, quelli che evitiamo per non farci male ma che non guardiamo perché non sono famosi, perché non sono passati alla Storia, la Storia con l’S maiuscola, quella di cui tutti parlano.
Muri banali? Muri senza storia? Direi proprio di no. Direi piuttosto muri che celano, come ogni cosa preziosa che non ha bisogno di ostentare il proprio valore, qualcosa di straordinario, di inatteso, e mostrano, a chi li sa guardare, una storia singolare che appartiene solo a quel muro lì e non ad altri.
Amelia Barbui
Oggetti nascosti dietro una sorta di velo. Chimere che esistono in quanto danno luogo a una teoria elegante.
Ibridi tra due elementi noti che infrangono l’ordine consueto.
Tracciati che prendono corpo mettendo in crisi ciò che si dava per scontato, appurato, suffragato da leggi note. Crisi dei fondamenti, vacillamenti.
Nuove eleganti teorie per trattare il reale, per approcciare la scabrosa irregolarità del caos.
Frattali che ci consentono di immaginarizzare il reale, mostrandoci l’iterazione di un tratto singolare e, al tempo stesso, il vuoto irriducibile intorno a cui si addensano le loro meravigliose immagini.
Tra il punto e la linea, tra la linea e il piano, tra il piano e il volume, tra un uomo e una donna, si incontra una singolare risposta al reale. Può essere un frattale, una struttura dissipativa, un amore liquido, un godimento di cui non si può dire, ma “solo” constatare che c’è.
Amelia Barbui
Nel 1956, nel Seminario Libro terzo, Le psicosi, Lacan scrive: “Ciò che caratterizza un soggetto normale, è precisamente il fatto di non prendere mai del tutto sul serio un certo numero di realtà di cui riconosce l’esistenza. Siete circondati da ogni sorta di realtà di cui non dubitate, certune delle quali sono particolarmente minacciose, ma non le prendete pienamente sul serio … e vi mantenete in uno stato medio … di felice incertezza. Sicuramente la certezza è la cosa più rara per il soggetto normale.”.
Più il sociale interpreta, più fornisce oggetti d’uso per un godimento generalizzato, più il soggetto si ritrae in uno stato di resistenza e, al tempo stesso, di urgenza in quanto il godimento, ribelle al sapere, vi si oppone e al tempo stesso spinge.
Non prendere pienamente sul serio un certo numero di realtà, non cadere nella trappola dicotomica che ci costringe a scegliere tra A e non A, pena l’esclusione dal sistema, il mantenersi in uno stato di incertezza, come il non-tutto della donna, è la risorsa del soggetto contemporaneo, messa in forma nella logica fuzzy, che J.A. Miller propone nel 1998 ad Antibe.
“Nella pratica siamo condannati al pensiero approssimativo”.
Tra i due estremi della curva di Gauss, tra il sicuro, che riguarda la convinzione, l’oggetto a, e il certo, il dimostrabile, c’è quanto non solo non è certo, non è dimostrabile, ma non è neanche sicuro. “Noi lavoriamo nel ‘non è sicuro ’, è il nostro pane quotidiano” . “Tutto poggia sul tono con cui si dirà ‘non è sicuro’, la convinzione, insomma l’oggetto a”.
E’ un invito a cambiare logica, a superare la logica binaria, come già in qualche modo annunciato da Lacan nel ’56 quando, al tempo stesso, fa un richiamo alla struttura.
“Prendiamo sul serio questa struttura – scrive Lacan riferendosi allo schema L. E’ un sistema di orientamento nella nostra esperienza che si struttura così, ed è all’interno di questo ‘così’ che possiamo collocare le diverse manifestazioni fenomeniche con le quali abbiamo a che fare.”.
Ed è quando riprende Miller quando ci ricorda che, proprio perché siamo condannati al pensiero approssimativo, occorre mantenere la nostra rotta verso il matema, ricordando che anche la logica fuzzy ha i propri matemi.
Un richiamo al reale, al reale della matematica, a ciò che non muta, alla potenza combinatoria della struttura, ai numeri che, come il sorriso o il pianto di un neonato, non hanno bisogno di traduzione e attraversano indisturbati tutti i confini, tenendo testa, come il godimento, a tutte le elucubrazioni di sapere.
Amelia Barbui
Crisi economica, politica, spirituale, dunque, se così è, non c’è niente da perdere, direbbe qualcuno, da una posizione femminile, avvezzo ad avere rapporto con la castrazione attraverso il reale, qualcuno che subito aggiungerebbe: ciò mi riguarda.
Il sintomo dal lato femminile, segnato dall’infinito della struttura del non-tutto, può prendere la forma della devastazione, come altra faccia dell’amore a cui una donna, la cui solitudine non coincide con l’isolamento, sempre convoca.
E Lacan dirà che tutte le donne sono folli perché hanno come partner Ⱥ, ma non lo sono del tutto: “pas-tout”.
Una donna ha sempre un punto di devastazione e non c’è legge che glielo possa risparmiare.
Una donna associa ordine e disordine e si mantiene in uno stato di stabilità lontano dall’equilibrio dove non vigono più leggi universali ma solo quelle particolari, singolari, dell’una per una.
Per una donna cambiamento e stabilità coesistono, potremmo dire che la stabilità è “garantita” dal cambiamento, dal mantenersi lontani dall’equilibrio trovano posto, come dalla parte maschile, leggi universali, fenomeni ripetitivi e calcolabili.
Per questo le donne stanno bene e conservano stabilità in situazioni complesse, non lineari, di non equilibrio. Il femminile non può che trovarvisi a proprio agio, perché nelle situazioni complesse è contemplata la perdita, non come elemento negativo, ma come alterità con valenza creativa.
Nel Seminario XVIII, parlando dell’uomo e della donna Lacan dirà che per avere la verità di un uomo è opportuno sapere qual è la sua donna che per lui rappresenta l’ora della verità.
Un’eco nelle parole di Nelson Mandela.
“Dalla notte che mi avvolge... nera come la fossa dell'Inferno... rendo grazie a qualunque Dio ci sia... per la mia anima invincibile... la morsa feroce degli eventi... non m'ha tratto smorfia o grido... sferzata a sangue dalla sorte.. non s'è piegata la mia testa... di là da questo luogo d'ira e di lacrime... si staglia solo l'orrore della fine... ma in faccia agli anni che minacciano... sono e sarò sempre... imperturbato... non importa quanto angusta sia la porta... quanto impetuosa la sentenza... sono il padrone del mio destino... il capitano della mia anima.”
Amelia Barbui
Propongo questo titolo provocatorio per interrogare, da una parte, l’unicità del godimento, del reale, la singolarità più radicale a ciascuno, a cui fa eco intolleranza e razzismo: l’odio del godimento dell’Altro dentro di sé e l’odio per il proprio godimento, e dall’altra la molteplicità delle identificazioni, una molteplicità culturale che possiamo declinare, pensando a Voltaire, come i frutti variabili, mutevoli, che traggono nutrimento dal terreno della natura.
Titolo provocatorio se si pensa alla messa in atto di una ripetizione in cui si presuppone che ciò che si ripete sia sempre lo stesso, ma non invece se si pensa all’iterazione di una funzione complessa, a cui partecipano elementi eterogenei, di nature diverse, e in cui ciò che resta, dopo aver consumato un po’ di reale nella simbolizzazione, viene ripreso e rimesso all’opera, come nel programma richiesto per la generazione dei frattali, scritture selvagge, chimere che, nonostante la complessità della forma, non dimenticano le condizioni di partenza che li hanno generati.
Apertura verso la molteplicità e, di seguito, crisi dell’unità, dell’identità, ma non dell’uno per uno.
Montaigne ne sapeva qualcosa: “Nel mondo – scrive - non ci sono mai state due opinioni uguali, non più di quanto ci siano mai stati due capelli o due grani identici: la qualità più universale è la diversità”. E ancora ne sapeva quando, interrogandosi sul concetto di barbarie dice: “Noi abbiamo, come unica pietra di paragone della verità e della ragione, sempre e solamente le opinioni e le usanze del paese in cui viviamo … chiamiamo barbarie tutto ciò che non rientra nei nostri costumi abituali” definendo in tal modo, tramite la differenza, la propria identità custodita entro i confini della consuetudine.
Montaigne riteneva che l’apertura verso la molteplicità, l’uscita dai costumi, fosse la via da seguire per aggiungere qualcosa al sapere.
Il rischio, il prezzo da pagare, il premio o l’obiettivo da raggiungere, nel mettere in discussione la propria identità, è, a seconda dei punti di vista, l’irruzione del disordine, dello sconvolgimento. L’uscita dai costumi può portare sia alla follia sia alla saggezza, e le due soluzioni non si escludono: “Da cosa nasce la più sottile follia - si chiede Montaigne – se non dalla più sottile saggezza?”.
Al conoscere come si gode, o meglio “avere almeno un’idea del modo in cui si può godere” come ricorda Miller, dove la conoscenza è temperata in una logica approssimativa, fa eco il conoscere il reale su cui Lacan si era interrogato, nelle ultime lezioni del Seminario Libro II, ponendo la celebre domanda: “Perché i pianeti non parlano?” per distinguere il reale dal simbolico, dagli assiomi che hanno messo a tacere quei corpi celesti su cui si era tanto sognato, ricordando tuttavia che “non si è chiuso il becco all’atomo o all’elettrone” e che il principio di indeterminazione di Heisemberg ne è la prova. “Quando si parla al posto degli elettroni, quando si dice loro di restare lì, di rimanere sempre al medesimo posto, non si sa più dove va a finire ciò che comunemente chiamiamo la loro velocità. Se invece dico loro – va bene, d’accordo, vi spostate continuamente nel medesimo modo -, non si sa più dove sono. Non dico che si resterà sempre in questa posizione eminentemente di presa in giro. Ma fino a nuovo ordine, possiamo dire che gli elementi non rispondono lì dove li si interroga. Più esattamente se li si interroga da qualche parte, è impossibile coglierli nell’insieme”.
Amelia Barbui
“ovvero reale”, un inciso, una precisazione o meglio una clausola, una condizione che Lacan pone alla fine del Seminario sul Sinthomo, con cui sigla uno spostamento d’accento sull’inconscio, non più solo transferale.
L’inconscio reale vuol dire prima di tutto che non è simbolico, che non tutto ciò che è inconscio è rimosso, che c’è un inconscio non rimosso e quindi non interpretabile.
Già Freud aveva sostenuto che l’inconscio non è solo rappresentazioni rimosse e, a partire da ciò, aveva elaborato, con la seconda topica, il concetto di Es, nucleo silenzioso, serbatoio pulsionale, come elemento eterogeneo rispetto alla natura del rimosso.
Se pensiamo all’inconscio come un insieme che comprende tutte le rappresentazioni rimosse, non troveremmo l’Es tra i suoi elementi, in quanto non è della stessa natura delle rappresentazioni. Nonostante ciò possiamo dire che l’Es appartiene all’inconscio, non come elemento ma come sottoinsieme, e potremmo spingerci fino a dire che l’Es gode dello stesso statuto che nella teoria degli insiemi ha l’insieme vuoto.
Nell’inconscio oltre alle rappresentazioni c’è l’Es come nucleo eterogeneo, come insieme vuoto, incluso in ogni insieme.
L’inconscio reale include l’Es – Miller 25 maggio 2011 – ma diversamente da Freud che in fondo cerca di addomesticare l’Es, sostenendo che dov’era l’Es deve subentrare l’io, in quanto mira, secondo la logica edipica, a sottomettere tutte le pulsioni parziali al primato fallico, Lacan introducendo il “non-tutto”, riconsiderando la pulsione a partire dalla logica femminile, scardina l’Edipo e offre cittadinanza ad una serie di godimenti sostitutivi che non devono rendere conto all’Altro, che possono fare a meno dell’Altro, che non si lasciano inquadrare in un sistema chiuso, in un insieme.
Il reale c’è, esiste, non parla, non può dirsi, come il godimento femminile, come un corpo che gode di se stesso, ma si scrive, per esempio attraverso la rappresentazione matematica di un tracciato, e si può “constatarne” l’esistenza, come nell’atto medico estremo si constata la morte.
Ciò che si constata, in analisi, è l’irruzione di un godimento indimenticabile, un evento singolare, unico, che ha valore di trauma e che si reitera fuori sistema, fuori senso.
Ciò che si constata è l’iterazione del sintomo, di un Uno tutto solo, dell’Uno del godimento, fuori sistema, che come ci propone Miller, è comparabile al processo che genera gli oggetti frattali le cui equazioni non lineari sono elementari, ma le forme sono le più complesse della matematica.
Quando, con il computer – ci ricorda Mandelbrot - si sono potute tracciare le curve frattali, in cui si riconosce in alcuni dettagli ciò che prima si vedeva nell’intero, il mito matematico secondo cui una curva non liscia era mostruosa, è crollato e si è scoperto che spesso assomigliano alla natura che ci circonda.
Termino qui con la “complessità” e il fascino che incontro nel dover dire qualcosa del reale.
“Si tratta di stabilire – scrive Lacan nel sem. XXIII p 97 - che cosa ha a che fare il sinthomo con il reale, il reale dell’inconscio, ammesso che l’inconscio sia reale”.
Amelia Barbui
“Lo sciame è ben formato quando ciascuno ha le carte in regola, i titoli per esserci. Ciò significa che i membri lavorano a partire dalle loro insegne e non dalla loro mancanza ad essere. I membri del cartello sono S1al lavoro, non dei soggetti supposti sapere o dei saccenti. Occorre dunque, che ciascuno vi entri con il proprio tratto, messo in valore come tale. E’ questa la condizione per avere un lavoro che produca sapere.”
J.-A. Miller, Cinque variazioni sul tema dell’elaborazione provocata
Ho scelto questo esergo in quanto mi sembra che ben si addica alle quattro testimonianze di lavoro in Cartelli che alcuni colleghi hanno fiduciosamente “depositato” nella nostra Scuola.
Occorre ora trovare una cornice per questo quadro speciale in cui, con rapide pennellate, prendono corpo una serie di immagini: un ospite inaspettato, un grumo di follia singolare, qualcosa che non esiste, e dei preziosi compagni di viaggio che scommettono su quella particolare forma di legane sociale proposta dal Cartello.
Propongo come cornice per questi scritti, una citazione da Bauman, da: “L’etica in un mondo di consumatori”.
“In una società liquido-moderna, lo sciametende a sostituire il gruppo, con i suoi leader, la sua gerarchia di comando e il suo ordine di beccata. Lo sciame può fare a meno di tutti questi orpelli senza i quali un gruppo non potrebbe esistere. Gli sciami non devono trascinarsi dietro pesanti strumenti di sopravvivenza: si assemblano, si disperdono e si ricompongono a seconda dei casi, guidati ogni volta da priorità differenti e invariabilmente mutevoli, e attirati da obiettivi che cambiano in continuazione, da bersagli in movimento. Il potere di seduzione rappresentato dal fatto di avere obiettivi sempre nuovi è di regola sufficiente a coordinare i loro movimenti, rendendo di conseguenza superfluo qualsiasi comando o altra imposizione “dall’alto” (anzi l’alto stesso – il centro – è superfluo). Lo sciame non ha un alto, un centro: è solo la direzione contingente del suo volo a collocare alcune delle unità di questo sciame a propulsione autonoma nella posizione di “leader”, da “seguire” per la durata di un determinato volo o per una parte di esso.”
Amelia Barbui
“Quando Peter Fortune aveva dieci anni, i grandi dicevano che era un bambino difficile. Lui però non capiva in che senso. Non si sentiva per niente difficile. Non scaraventava le bottiglie del latte contro il muro del giardino, non si rovesciava in testa il ketchup facendo finta che fosse sangue ….. Mangiava di tutto, tranne, s’intende il pesce, le uova, il formaggio …. Non era più rumoroso, più sporco o più stupido degli altri bambini. Aveva un nome facile da dire e da scrivere e una faccia pallida e lentigginosa, facile da ricordare. …
Fu solo quando era ormai grande da un pezzo che Peter finalmente capì. La gente lo considerava difficile perché se ne stava sempre zitto. E a quanto pare questo dava fastidio. L’altro problema era che gli piaceva starsene da solo. Non sempre naturalmente. … Ma gli piaceva prendersi un’ora per stare tranquillo in qualche posto… Gli piaceva stare da solo, e pensare i suoi pensieri.
Il guaio è che i grandi si illudono di sapere che cosa succede dentro la testa di un bambino di dieci anni. Ed è impossibile sapere di una persona che cosa pensa, se quella non lo dice.
Quanto a stare per conto suo, neanche quello ai grandi andava giù. Se ti unisci alla compagnia la gente sa cosa ti passa per la mente. Perché è la stessa cosa che sta passando per la mente degli altri.”
Ian McEwan, L’inventore di sogni.
Il bambino è sempre stato oggetto di osservazione e di valutazione, possiamo dire, “per il suo bene”. Tale enunciato apre a un’incalcolabile produzione fantasmatica, sia da parte dell’Altro che se ne occupa - la famiglia, le istituzioni sociali e religiose, i luoghi di cura – sia da parte del bambino, come soggetto, impegnato ad interpretare quale possa essere il suo posto in tutto questo accanimento dove il desiderio fatica a farsi sentire, lasciando il posto a una volontà di omologazione.
Il bambino è sempre stato oggetto, non è scandaloso affermarlo se tale oggetto è declinato con il desiderio. Un oggetto di cui si parla nell’attesa dell’evento della nascita, che si guarda, si esamina e si inserisce in un progetto.
E’ sempre stato un oggetto soggetto a una legge simbolica, emanazione della tradizione famigliare, delle credenze religiose, politiche, sociali.
E’ sempre stato oggetto; della madre – nell’equivalenza fallo-bambino - della famiglia – come investimento per il futuro e trasmissione del nome, come oggetto di lucro, ma anche come oggetto di godimento, dal sublimato al perverso - oggetto dell’istituzione sociale – come risorsa/investimento economico su cui investire - e oggetto di studio della scienza.
Qualcuno ne ha sempre goduto e ne ha sempre parlato.
Prodotto dell’essere umano, di una coppia, voluto o non voluto, abbandonato o curato, è anche un bene la cui presenza viene contabilizzata al termine del contratto.
E come ogni prodotto è anche sempre stato soggetto alla valutazione di qualità, come ne testimonia la leggenda del monte Taigeto, incarnazione delle fantasmatiche di perfezione del corpo.
Neanche l’istituzione religiosa l’ha risparmiato. Per rispettare l’esclusione delle donne e della loro voce dall’arte sacra, creò, attraverso la manipolazione del corpo, trasgredendo le leggi della natura, quella nuova figura che impersonava l’eccellenza estetica: il castrato la cui sensualità era trasfigurata dal canto.
La castrazione a scopo artistico, rispondendo al bisogno di disporre di voci da soprano per la liturgia, raggiunse nel XVIII secolo, in Italia, cifre sconcertanti. Ogni anno venivano operati dai duemila ai cinquemila bambini che, forme incarnate della purificazione corporale e spirituale, andavano ad alimentare le cappelle pontificie.
Tutto ciò per ricordare che ogni struttura rigida, tendente ad istituire leggi universali, non può che espellere ciò che non è riconducibile alle norme stabilite, siano bambini imperfetti alla nascita, siano le donne, sostituite dal fascino ambiguo di un corpo castrato diverso dagli altri; e per ricordare che, inevitabilmente, ogni oggettivazione comporta una violazione dei diritti soggettivi.
Anche la scienza oggettiva il bambino. La medicina lo sottopone ad osservazioni accurate per valutarne il “buon funzionamento” fisico e psichico seguendo protocolli diagnostici e terapeutici uguali per tutti.
Tuttavia, consapevole dell’incompletezza del suo sapere, dei suoi limiti, dell’impossibilità di salvare dalla morte, si presenta come un sistema complesso, non lineare, nelle cui maglie c’è posto per l’aleatorietà, per l’indeterminazione. Per quanto escluso, il soggetto ha un posto nella scienza medica che mette continuamente alla prova, secondo il principio di Heisenberg, il fatto che l’osservatore influisca inevitabilmente sulle proprietà dell’oggetto osservato e che non si può conoscere tutto.
Sta a noi riprendere questo “non tutto” non come negazione del tutto tentando di aggiungervi qualcosa, ma come il “non-tutto” che pertiene alla logica della posizione femminile.
Amelia Barbui
Ciò che mi interroga è la formulazione di Lacan riguardo al segno: “Un segno rappresenta qualcosa per qualcuno, il qualcuno è là come supporto del segno”[1]
Il segno, come Lacan ricorda facendo l’esempio del passo di Venerdì nell’isola di Robinson,[2] è una traccia cancellata. La sua funzione è dunque di cancellare la traccia, indicando e al tempo stesso celando il reale.
Questo “qualcosa per qualcuno” introduce inevitabilmenteaquell’indeterminazione che troviamo dal lato femminile delle formule della sessuazione e nella logica fuzzy, da esse sottesa.
Il “pas toutes” indica che da qualche parte, e niente di più, una donna ha rapporto con la funzione fallica, non tutte, non è impossibile che …
Tale logica riguarda anche la psicosi ordinaria che sfugge alle categoria della clinica classica secondo cui è possibile individuare un insieme in cui possono prendere posto tutti i tratti distintivi di una data struttura clinica.
Ricordo che in “Psicosi ordinaria e clinica flou” Miller parla di “modi di godere” introducendo così l’approssimazione, il “non è sicuro”, il “più o meno”, con cui ci troviamo ad avere a che fare nel momento in cui viene a mancare quel principio organizzatore che ci consente di ripartire, secondo classi, in modo dicotomico e discontinuo il reale o la verità delle cose umane.
Come trattare i segni o, meglio ancora, cosa farne?
Non si tratta certo di cercare di dare loro senso incasellandoli in nuove categorie diagnostiche. Il lato femminile delle formule della sessuazione ci mette in guardia rispetto a ciò.
Un incontro fortuito, in una giornata di sole, con dei segni curiosi, insensati, lasciati sul lungo Tevere per andare verso piazza Augusto Imperatore, all’altezza di via di Ripetta, mi ha fatto ulteriormente riflettere sulla singolarità delle soluzioni.
Solo più tardi ho saputo che si trattava dell’opera di un artista di strada: Fausto Delle Chiaie che osserva, cerca, raccoglie, e poi rielabora e ridistribuisce oggetti qualsiasi, comuni di scarto. Ma non dà senso a queste tracce quanto piuttosto rielaborando, riaggregando ciò che trova le “cancella” in quanto tracce, le vela e crea dei segni che indicano un percorso che spezza la consuetudine delle cose gettate per terra. Tracce, piccole cose, cose da nulla, semplici presenze, che per qualcuno divengono indizi di qualcosa.
Che un segno non abbia niente a che fare con un significante è ribadito a più riprese da Lacan
“Il segno, diversamente dal significante, non fa sorgere il soggetto. I segni sono dati in un’esperienza privilegiata in cui c’è un ordine, non del reale ma nel reale.”[3]
Amelia Barbui
La riflessione che propongo può sembrare irriverente, ma ricordo ancora i grandi cartelli che festeggiavano l’arrivo delle rumene in Italia, a Roma in viale Oceano Pacifico, prima che la Romania facesse parte della UE.
“So arivate le rumene”, potremmo ridurre questo annuncio al piano commerciale: merce fresca! Era senz’altro questo lo scopo del cartello rivolto alla comunità maschile per la quale le donne sono sempre ben accette!
Da qui un interrogativo: i servigi sessuali spengono o alimentano il razzismo che è in ciascuno di noi?
Le donne non portano solo il loro corpo. Portano con sé e custodiscono l’esperienza e la cultura del luogo di origine. Una differenza narrata e non imposta, di cui non si fanno paladine, che affascina e non spaventa anche se sovversiva e scandalosa.
Le donne hanno sempre viaggiato. Le prime tracce risalgono alla fine dell’età della pietra, nell’Europa Centrale, come risulta da uno studio di alcuni archeologhi tedeschi che hanno sottoposto i reperti trovati in alcuni cimiteri preistorici della valle del fiume Lech all’analisi del DNA mitocondriale.[1]
“Le “straniere” – si legge nell’articolo - si integravano perfettamente nelle nuove comunità, come dimostra l’omogeneità delle sepolture ritrovate nella valle del Lech.”
Le straniere non fanno così paura, sembra che non turbino l’economia.
Più flessibili, non trasmettono/impongono il nome, una dinastia, ma il reale del loro DNA mitocondriale. Non è poco, anzi, ma non è competitivo.
Forse da loro possiamo imparare a trattare l’intolleranza che ci abita.