La psicoanalisi fuori dal divano - Un'altra logica

Alcune note del seminario tenuto a Napoli 2013


Amelia Barbui

 

La prima indicazione che mi viene dal tema del seminario è parlare di psicosi, d’altra parte, “ogni possibile trattamento delle psicosi” implica già un “fuori divano”.

Possiamo però ampliare, anzi, “aprire” il campo e spaziare tra le psicosi ordinarie interrogando così la follia di ciascuno, uno per uno.

“Psicoanalisi fuori dal divano” è anche un modo per chiedere allo psicoanalista di fare a meno di quelle certezze che in qualche modo può presumere di avere quando si attiene al setting, a una griglia funzionale dove può trovarsi a proprio agio, preso nell’abitudine del quotidiano. E’ un po’ come per un chirurgo l’entrare in sala operatoria, conscio di avere una serie di strumenti operativi a disposizione per svolgere al meglio la sua funzione.

Ma un bravo chirurgo è colui che sa operare anche in situazioni per lui di disagio, per il paziente di urgenza, senza avere a disposizione gli strumenti “canonici” del mestiere e dovendo, a partire dal proprio saperci fare, inventare strumenti non convenzionali con cui operare. E allora una penna bic non viene più vista come strumento per scrivere, ma per eseguire una tracheotomia! “Uso improprio dello strumento” secondo i canoni, soluzione creativa se si accetta una logica diversa da quella dell’impero del senso.

 

Vi propongo questa analogia perché proprio Freud, nella lezione 27 dell’Introduzione alla psicoanalisi [1], paragona l’operare della psicoanalisi alla chirurgia in quanto entrambe producono un mutamento permanente. Non una cosmesi, dunque, ma tagli – nelle nevrosi - e annodamenti, ricuciture – nelle psicosi, quando i pazienti si presentano a noi per farci constatare le ferite, permettetemi questa immagine, provocate dalle loro interpretazioni, quando il delirio non ha ancora “rammendato” la lacerazione nel rapporto dell’io con il mondo esterno - come ricorda Freud in nevrosi e psicosi [2]. Rammendi che quando cedono richiedono nuove cuciture, un rinforzo, una nuova tessitura per la quale occorre fare attenzione – se ci prestiamo a quest’opera - a non usare il nostro filo – forse più forte, più resistente, ma ad eseguire il ricamo sempre con lo stesso filo, quello con cui il paziente ha iniziato la sua opera, quello con cui ha scritto la sua cifra, quello con cui ha ordinato il suo mondo, sia pure in maniera insolita e che, il più delle volte, ha riposto in uno scrigno sicuro di cui non ama condividere la combinazione.  Se non facciamo così rischiamo la lacerazione della trama stessa.

Nostro compito non è capire ciò che il paziente dice, ma cogliere la logica che gli consente ti arginare il godimento, di ridare senso alle cose che scandiscono la ripetizione della sua vita.

 

Qualche anno fa mi è stato chiesto di scrivere, in modo originale, la voce “Logica” in vista del Convegno di Buenos Aires [3]. Ho trattato il tema sulla falsa riga di un dialogo tra l’Altro, che si attiene alla logica aristotelica, e l’oggetto a che invece fa obiezione a tale logica . Ve ne propongo alcuni stralci perché penso possa farvi capire a quale logica occorra dare ascolto nella nostra pratica clinica.

a, piccola lettera che dice “no”, che dice “senza”, ma anche “non senza” – obiezione isterica ad ogni tentativo di cattura in un sistema logicamente coerente – dopo aver messo al lavoro A, gli propone un incontro casuale sulla curva di Gauss. 

Miller, nella conversazione di Antibes sulla psicosi ordinaria [4], parla della curva di Gauss a proposito dei modi di godere, delle variazioni di godimento. “Qual è la verità delle cose umane? E’ la curva di Gauss.” Alle estremità ci sono i radicalmente opposti e in mezzo c’è una campana di più o meno. Noi lavoriamo lì, con insiemi dai contorni incerti dove mancano criteri ben definiti di appartenenza e sono ammessi diversi gradi di verità, come nella logica del non-tutto, dal lato donna.

 

La piccola a, a proposito della sua logica dirà, rispondendo ad un’obiezione di A:  la mia logica è un’articolazione che si organizza intorno al godimento, ad uno strano attrattore. Non obbedisce al legame sociale, non è il tuo ordine universale a cui sono stata costretta a fare continuamente obiezione per mantenermi in uno stato di stabilità. Non imbrigliarmi, dunque, ma lasciami inventare, lascia che, condotto dalla mia mano, intorno al buco si tessa, con il tuo filo, un fragile ricamo. Ascolta l’eco del godimento; puoi vedere come si veste, si colora, si abbellisce e, se accogli il mio invito, allora quel prodotto potrà essere un’opera d’arte, altrimenti rimarrà il mio segreto, la mia pars fracta, il mio frattale.

 

Nella clinica occorre provare a mettere al lavoro la logica del “non-tutto”, che non vuol dire che qualcosa manca, ma che si tratta di una logica diversa, una logica flou, che risponde alla parte “femminile” delle formule della sessuazione.

 

A partire da queste considerazioni potremmo intitolare ogni caso di psicosi come “Inadeguata/o all’edipo”. Per ciascuno si tratta di un’inadeguatezza singolare all’Edipo il cui assioma organizza e da senso alle relazioni, proponendo un senso al godimento che dovrebbe produrre un effetto pacificante. Nostro compito non è certo di adeguare il paziente a questa logica di cui il soggetto ci fa constatare l’inefficacia, ma piuttosto mettere in valore, al di là del senso, la sua singolarità, e cioè quel che lo rende inadeguato. Si tratta, per dirlo diversamente, dell’incurabile – del frattale – che riguarda tutte le strutture cliniche e sta a indicare quel che resta alla fine di un’analisi, che Freud indica come roccia della castrazione.

L’incurabile riguarda quel che non è trattabile con la parola – la psicoanalisi è per eccellenza una pratica di parola – quel nucleo di godimento, come precisa Lacan, che è al tempo stesso il punto più intimo e più estraneo al soggetto, che lo rende unico e che è, al tempo stesso, così difficile da accettare. Quel qualcosa che si manifesta nel fantasma, così difficile da dire in analisi perché contraddice ciò che il soggetto vorrebbe essere, contraddice il modo in cui il soggetto si presenta all’Altro. Quel qualcosa che si manifesta, in altra forma, nel delirio o nell’atto perverso. Un’estraneità che è al cuore della vita psichica, come ben ci mostra Freud nel suo saggio sul perturbante – del 1919 – e in un disturbo della memoria sull’Acropoli – del 1936.

L’incurabile è il paradosso del godimento. Esso si manifesta in modo più eclatante nelle psicosi, dove l’inconscio è “a cielo aperto” e nelle perversioni, di cui le nevrosi sono “la negativa”.

E come ogni paradosso, degno di tal nome, disturba la quiete del sistema ed è di necessità soggetto a un’operazione di cosmesi, di mascheramento, di riduzione al silenzio – le indemoniate - o di sacralizzazione – le mistiche - da parte delle religioni, o è soggetto a un’operazione di riduzione all’universale – “so di cosa vuoi godere” -, da parte del discorso capitalista. A entrambi dobbiamo riconoscere la capacità, l’abilità, di guarire, e cioè di imporre un senso universale al godimento, che valga per tutti, e a cui il soggetto deve adeguarsi e credere.

Il soggetto può anche trovare un limite al godimento in eccesso, all’Es freudiano, ma al prezzo di trovarsi lui stesso oggetto del godimento della struttura di cui decide di fare parte, di cui decide di condividere gli ideali e di rispettare la gerarchia. In fondo è questa la funzione del Nome del Padre a cui il soggetto psicotico dice no. E’ questa l’insondabile decisione dell’essere: lasciarsi tentare dal rischio della libertà, rifiutando di soggettivare un’identificazione comune.

 

Nella psicosi c’è struttura, come Freud stesso ha dimostrato. Partiamo dal saggio di Freud del 1921 che precede di dieci anni lo scritto di Lacan sulla struttura delle psicosi paranoiche[5].  In: “Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità” [6], Freud distingue tre livelli o gradi della gelosia. Consideriamo dunque una manifestazione che riteniamo abbia a che fare con l’amore, con il transfert, con le relazioni edipiche, con le relazioni che il soggetto intrattiene con l’altro, con i legami sociali o, per dirla ancora in un altro modo e non ultimo, con il narcisismo, con la propria immagine.

I tre livelli di gelosia sono i seguenti:

1) gelosia competitiva o normale

2) gelosia proiettata

3) gelosia delirante

 

Nel primo livello trovano posto: sia il dolore provocato dalla convinzione di aver perduto l’oggetto d’amore - un oggetto a cui si è dato un valore, un oggetto che è stato simbolizzato e di cui se ne è riconosciuta l’esistenza - sia il dolore provocato dalla ferita narcisistica.

A questo livello si manifestano sentimenti ostili verso il più fortunato rivale e una dose, più o meno grande, di autocritica che tende ad attribuire al proprio Io la responsabilità della perdita amorosa.

La gelosia competitiva è profondamente radicata nell’inconscio. Trae origine dal complesso edipico o da quello fratello-sorella, a cui corrisponde il  complesso di intrusione di Lacan.

 

Nel secondo livello il soggetto proietta le proprie tendenze all’infedeltà sul partner – indicando con ciò che c’è legame, c’è relazione - a cui deve essere fedele – c’è dunque una legge a cui il soggetto si adegua. La gelosia che è originata da tale proiezione, pur avendo un carattere quasi delirante, non si oppone al lavoro analitico che rende palesi le fantasie inconsce di infedeltà del soggetto stesso. L’infedeltà negata ritorna dal rimosso.

 

Nel terzo livello troviamo la gelosia delirante la quale corrisponde a un’omosessualità che ha seguito il suo corso e prende posto tra le forme classiche della paranoia. Gli oggetti della fantasia delirante di gelosia sono dello stesso sesso del soggetto.

E’ l’espressione di un tentativo di difesa contro un impulso omosessuale troppo forte, secondo la seguente formula: “Non sono io che lo amo, è lei che lo ama”, provocando quindi gelosia.

 

Spostiamoci, per approfondire questo punto, al saggio di Freud del 1910: “Osservazioni  psicoanalitica su un caso di paranoia”[7]  in cui mette a punto la tesi secondo cui la fantasia di desiderio omosessuale di amare un uomo costituisce il centro del conflitto della paranoia, e propone una vera e propria struttura linguistica attraverso cui leggere le principali forme di paranoia che “possono essere rappresentate come contraddizioni dell’unica proposizione seguente: Io (un uomo) amo lui (un uomo).

La proposizione è contraddetta i quattro modi diversi:

a)    Nel delirio di persecuzione si contraddice il verbo. “Io non lo amo” diviene “io lo odio”. “Io lo odio” si trasforma poi, grazie a un meccanismo di proiezione, e giunge dall’esterno, in questa forma: “Egli mi odia (mi perseguita) e ciò mi autorizza ad odiarlo”. “Non lo amo, lo odio perché mi perseguita”. Potremmo dire che si tratta di una soluzione, un’interpretazione, una risposta, che il soggetto elabora a partire dalla sua posizione paranoica costituente a cui non dice no, che non rifiuta.

Nella mania di persecuzione i paranoici –scrive Freud - “attribuiscono un significato a tutto quello che fanno gli altri, e nel loro delirio di riferimento utilizzano ogni minimo indizio che è loro offerto da persone sconosciute. Ogni gesto, ogni cenno, ogni discorso, si riferisce a loro.

Il significato del loro delirio di riferimento consiste nel fatto che essi si aspettano da tutti gli estranei un atteggiamento che potremmo definire di amore. Il soggetto si definisce come una sorta di punto catalizzatore di amore.

“Ma gli altri non manifestano niente affatto un sentimento del genere, ridacchiano tra sé e sé, agitano il loro bastone o addirittura sputano per terra passando vicino a loro (ed è vero che non farebbero queste cose se provassero amicizia o interesse per colui che incontrano). Ci si comporta così solo se questi ci è del tutto indifferente, se si può ignorare completamente la sua presenza”.

Ma se si considera la fondamentale affinità che esiste tra il concetto di “estraneo” e quello di “nemico”, - pensate per questo al complesso di intrusione e allo stadio dello specchio di Lacan, oppure pensate all’estraneazione, in cui un frammento della realtà appare estraneo, o anche alla depersonalizzazione, in cui una parte dell’Io appare estranea, o ancora al perturbante, quando qualcosa di familiare che avrebbe dovuto rimanere nascosto affiora come estraneo, unheimliche, familiare ed estraneo al tempo stesso, pensate al doppio, che non è l’incontro con un altro identico, ma con qualcosa che eccede, un’eccedenza pulsionale, rispetto ai tratti determinanti dell’identità, con qualcosa che è sfuggito al potere dell’identificazione - il paranoico non ha poi tutti i torti se sente come avversione questa indifferenza contro cui si scontra la sua richiesta d’amore.

“Cominciamo a sospettare che la nostra descrizione del comportamento del paranoico geloso e di quello persecutorio, è molto insufficiente se ci limitiamo ad affermare che essi proiettano all’esterno, sugli altri, quello che non vogliono riconoscere nel proprio intimo.

Certamente è così, ma non proiettano per così dire nel vuoto, dove non si trova nulla di somigliante; invero essi si lasciano guidare dalla loro conoscenza dell’inconscio e spostano sull’inconscio delle altre persone l’attenzione che hanno stornato dal proprio.”

A tale proposito, parlando di un caso di gelosia paranoica Freud osserva che “l’anomalia di quest’uomo si riduceva al fatto di osservare l’inconscio di sua moglie (indizi minutissimi che rivelavano la presenza di una civetteria del tutto inconscia) più attentamente degli altri e di attribuirgli (all’inconscio) un’importanza molto maggiore di quanto sarebbe venuto in mente di fare a chiunque - salvo uno psicoanalista.”

Qui possiamo intendere la formulazione di Lacan della psicoanalisi come una paranoia governata, guidata, durante la quale il soggetto lascia andare successivamente le imago dell’altro che sono state per lui rivali.

“Il nostro marito geloso – prosegue Freud - riconosce l’infedeltà di sua moglie al posto della propria; prendendo coscienza dell’infedeltà della moglie e ingrandendola enormemente, egli riesce a mantenere inconscia la propria infedeltà.

Se attribuiamo – è un’ipotesi – a questo esempio un valore paradigmatico, possiamo concludere che anche l’ostilità che il paranoico persecutorio ravvisa negli altri è il riflesso di sentimenti ostili che egli stesso nutre nei loro confronti e nel caso del paranoico è proprio la persona più amata del proprio sesso a trasformarsi in persecutore provocando un capovolgimento affettivo.” 

Il delirio di persecuzione può dunque essere inteso come una soluzione del soggetto all’impossibilità di sostenere l’amore.

 

b)   Nell’erotomania si contraddice l’oggetto: “non è lui che io amo; io amo lei”.

La coazione a proiettare trasforma l’enunciato in: “Mi accorgo che lei mi ama”. “Non è lui che io amo – io amo lei – perché lei mi ama”. Tutti questi innamoramenti non hanno inizio con la percezione interna di amare, bensì con la percezione proveniente dall’esterno di essere amati.

E’ questa una soluzione al rifiuto da parte del soggetto di amare.

 

c)    Nel delirio di gelosia si contraddice il soggetto. “Non sono io che amo l’uomo – è lei che lo ama”- enunciato da parte di un uomo - o “Non sono io che amo le donne – è lui che le ama” –enunciato da parte di una donna. 

“La deformazione da proiezione viene qui necessariamente meno perché, con lo scambio del soggetto che ama, l’intero processo è comunque gettato fuori dall’Io. Che la donna ami gli uomini è un dato della percezione esterna mentre l’odiare in luogo di amare (delirio di persecuzione), o l’amare una persona in luogo di un’altra (erotomania) sono dati propri della percezione interna”  che il soggetto rifiuta proiettandoli sull’altro.

Anche in questo caso si tratta di una soluzione al rifiuto di amare, non poter amare.

 

d)   Nel delirio di grandezza c’è il rifiuto globale della proposizione nel suo insieme.

“Io non amo affatto e nessuno”, ma poiché la libido va pure indirizzata in qualche direzione l’enunciato è “Io amo solo me stesso” – sopravvalutazione sessuale del proprio Io, narcisismo. Il delirio di grandezza appartiene tipicamente alla natura infantile, e sarà poi sacrificato alle esigenze della vita sociale.

E’ una soluzione in cui l’Altro è escluso.

 

“Io amo lui” una proposizione di tre termini che riguarda l’amore e che viene contraddetta – viene respinta, rifiutata - dal soggetto nelle principali forme di paranoia.

Nel seminario sulle psicosi [8] Lacan riprende il tema della gelosia precisandone la differenza a seconda che si manifesti nella nevrosi o nella psicosi. Nella nevrosi il soggetto si attiva per ricercare dati di realtà rispetto a cui è sicuro e intorno a cui ristabilisce il suo fantasma,

ricerca dati di realtà che in ogni caso non bastano a risolvere l’enigma che in ultima istanza riguarda il desiderio e il rapporto con l’Altro, il posto che ha nel desiderio dell’altro, perché non desidera lui, ma un altro? Che cosa gli manca? Tale enigma rinvia alla castrazione.

 

Nella psicosi incontriamo la certezza delirante. In questo caso la gelosia non ha carattere enigmatico e si dispensa da ogni riferimento reale.

Non è la realtà che è messa in causa. Il fenomeno della gelosia è di altro ordine dal reale e il soggetto sa bene che la realtà di tale manifestazione non è sicura e può anche ammetterne l’irrealtà.

“Ma contrariamente al soggetto normale – scrive Lacan - per il quale la realtà non altera l’assetto precedente, l’assetto fantasmatico, il folle, pur non credendo alla realtà della sua manifestazione/allucinazione, ha una certezza, che ciò di cui si tratta - dall’allucinazione all’interpretazione delirante - lo riguarda.”  Si sente chiamato in causa. Il suo modo di trattare la ribellione dell’Es, del godimento contro il mondo esterno è inventare una nuova realtà.

Anche se ciò che prova non appartiene all’ordine della realtà, ciò non tocca la sua certezza, che la cosa lo riguarda. Questa certezza è radicale, ed è per lui incrollabile. Qui s’inscrive la psicosi passionale .

 

 

 

 



[1] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, in Opere vol. 8, Boringhieri, Torino 2003.

[2] S. Freud, Nevrosi e psicosi, in Opere vol. 9, Boringhieri, Torino 2003.

[3] A. Barbui, Logica, in Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psicoanalitica, Quodlibet, Macerata 2008.

[4] J.-A. Miller, Clinica flessibile, in La psicosi ordinaria, Astrolabio, Roma 2000.

[5] J.Lacan, Della psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità, Einaudi, Torino 1980.

[6] S. Freud, Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità, in Opere vol.9, Boringhieri, Torino 2003.

[7] S. Freud, Osservazioni psicoanalitiche su un caso di paranoia, in Opere vol.6, Boringhieri, Torino 2003.

[8] J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi, Einaudi, Torino 1985.