Intervento al 4° Rencontre internationale - Fondation du Champ Freudien su Hysterie et obsession, Parigi 1986
Amelia Barbui
Nelle pagine della Fenomenologia dello spirito, dove è descritta la lotta a morte per il puro prestigio, Hegel precisa che la posizione di servo e quella di padrone sono definite soltanto dall’esito.
In principio la lotta non è tra servo e padrone: il servo non sa prima che sarà servo, come il padrone non sa in anticipo della sua vittoria. Il vincitore sarà padrone e lo sconfitto sarà servo per aver accettato la vita dopo aver tremato guardando la morte negli occhi.
Ci si può domandare cosa sostenga il desiderio di vivere del servo dopo che ha perduto il prestigio e la dignità di uomo: di fronte alla disgregazione totale del suo essere, solo un istinto animale di sopravvivenza lo ha spinto a umiliarsi chiedendo la vita a ogni costo.
Lacan ricorre a questa immagine hegeliana per descrivere la logica che governa l’ossessivo.
La dialettica del servo e del padrone si confà perfettamente al ragionamento con cui un ossessivo, che seguo in analisi da alcuni anni, cerca di rendere conto della propria condizione, restando folgorato come da una scoperta, non appena enuncia i passaggi seguenti: “Perché io possa godere della vittoria, l’altro deve riconoscere la propria sconfitta. Solo tale riconoscimento autentifica la sua sconfitta e, di conseguenza, la mia vittoria. Perché la vittoria sia possibile, deve dunque essere possibile la sconfitta. Se è possibile, deve poter accadere. Ma il solo mezzo per verificare che può veramente accadere è che io sia sconfitto e devo quindi potermi riconoscere nella figura dello sconfitto. Solo però a condizione che io stesso faccia personalmente questa esperienza posso sapere con certezza che è possibile. Inoltre non potrei godere pienamente di nessuna vittoria se non avessi in me saldamente questa certezza. Non sarei soddisfatto di nessuna vittoria se non sapessi che la figura dello sconfitto esiste oggettivamente. Ma perché esista oggettivamente io devo poterla impersonare, cioè devo essere lo sconfitto. Quindi, poiché la sconfitta è la sola autentificazione della vittoria, per poter essere vincente io devo innanzi tutto essere perdente. In altri termini, per poter essere autenticamente vincente io non posso mai vincere.”
Questo ragionamento può sembrare un’elucubrazione forse un po’ astratta, ma stiamo esplorando i labirinti borgesiani del pensiero ossessivo che non si lascia arrestare dalla vertigine del sofisma.
D’altra parte, è qui delineato il vicolo cieco del discorso del padrone che, su un altro piano, Kojeve ha chiaramente indicato, ovvero: il padrone ha ingaggiato la lotta rischiando la morte senza nessuna necessità biologica, per il riconoscimento del puro prestigio, e ora può essere riconosciuto soltanto da un essere che, ai suoi occhi, ha perduto ogni dignità umana, il cui riconoscimento vale meno di niente.
E’ inutile cercare di collocare il nostro paziente dalla parte del servo o del padrone: questa dialettica vive in lui in tutte le sue figure e in tutte le sue impasses. Possiamo però subito notare una cosa: la vittoria ottenuta con la pura forza o con l’astuzia per lui non vale niente. C’è in lui l’esigenza che gli venga riconosciuta una superiorità morale in cui si smarriscono i labirinti sconfinati del suo desiderio, in quanto essa è qualcosa, e lui lo sa, di non verificabile che rimane comunque fuori gioco.
La letteratura psicoanalitica non manca certo di ricche e particolareggiate descrizioni del carattere anale dell’ossessivo: abbiamo, oltre all’articolo di Freud, gli studi di Jones, di Abraham, di Fenichel, per citare solo i classici.
La genesi della superiorità morale è riconosciuta nel controllo che il bambino esercita sulle proprie feci, sottraendosi in tal modo alla domanda invadente di una madre che rivendica un controllo totale. E, quando deve cedere alla violenza dell’educazione, gli resta il conforto di una superiorità magica, prima matrice della superiorità morale il cui fondamento autoerotico risulta così evidente.
Inoltre, dalle descrizioni classiche del carattere anale, la superiorità morale è l’estremo rifugio di chi, cedendo alla forza, salva la faccia spostando il terreno di verifica del proprio prestigio in una regione dove risulta a tutti gli effetti inverificabile.
Questo corrisponde, in qualche modo, sul versante femminile, alla posizione della donna che concede con facilità il proprio corpo all’uomo che tanto non avrà mai la sua anima. Non sarebbe neppure improprio, in questo senso, parlare della superiorità morale della prostituta.
Tutto ciò corrisponde a una descrizione fenomenologica corretta: l’ossessivo non mette in gioco il fallo e schiva la castrazione innalzando un baluardo irraggiungibile.
Nel caso del nostro paziente, ci sembra di poter cogliere un risvolto forse più sottile di questa dialettica. Il problema non è semplicemente di lasciarsi aperta una via di fuga e cioè chiedere la vita a qualunque prezzo per vanificare la vittoria dell’altro.
Le figure del servo e del padrone coincidono in lui in un equilibrio di cui il ragionamento sopra esposto mostra il punto di stasi e di svolta. Non si tratta di preservarsi un retroterra di salvezza, ma di un dovere, una vera e propria coazione a vincere dove la vittoria non possa essere verificata, cioè dove non c’è messa in gioco del desiderio.
Una scena di un sogno può forse illustrare plasticamente questa logica.
Lui e la giovane moglie sono implicati in qualche losco complotto, qualcuno dà loro la caccia e devono sfuggire agli inseguitori.
Salgono improvvisamente su un ascensore, dove trovano un “negro” che sembra loro di riconoscere come un nemico. Si scambiano un’occhiata d’intesa, e il nostro eroe passa all’azione spingendo il negro con la faccia alla parete e intimandogli di alzare le mani. Il negro obbedisce ma i suoi gesti sono poco rassicuranti, tanto che lui, insospettito, fa attenzione a ogni minima mossa. Nota, a un certo punto, che la mano sinistra del negro è calzata da un guanto nero come la sua pelle, che prima, nella penombra, non aveva potuto vedere.
Appena scorto il particolare si accorge che, con movimenti impercettibili, il negro è riuscito a mettersi alle spalle della moglie e che, con finta noncuranza, alza ancora più in su la mano guantata.
Allora gli balza addosso afferrandolo per il polso e, fermandogli la mano, scopre che nasconde uno stiletto egiziano. (In un film che aveva visto poco tempo prima, lo stiletto era il simbolo della vita eterna.) “Volevi farlo!” gli urla fuori di sé. “Sì” ammette con semplice naturalezza il negro. Accecato dalla collera, lo afferra per le spalle spingendolo brutalmente fuori dall’ascensore e, così facendo, lo lascia andare.
A questo punto si sveglia infuriato contro se stesso domandandosi perché mai l’avesse lasciato fuggire, perché non l’avesse ucciso risolvendo la questione una volta per tutte. Lasciare libero il negro significava, infatti, che lui e la moglie erano ancora in pericolo e che gli inseguitori davano loro ancora la caccia.
La prima associazione riguarda un ricordo precedente all’adolescenza: era venuto a trovarlo a casa un compagno di scuola, un ragazzino di cui diffidava e che gli era antipatico, ma che aveva invitato per degli scambi di figurine. A un certo punto, chiamato dalla mamma, si era allontanato dalla stanza lasciando incustodito il suo mazzetto di figurine. Una volta tornato, alcuni gesti troppo rapidi del compagno di giochi lo avevano insospettito.
Senza dar nulla a vedere, aveva preso in mano il proprio mazzetto di figurine e lo aveva passato in rassegna. Le figurine che mancavano dal suo mazzetto erano finite in quello del compagno che non aveva potuto impedirgli di controllarlo. Colto con le mani nel sacco, il ragazzino non aveva potuto negare e, confuso, balbettava poche incomprensibili parole di scusa.
Fu quello il suo grande momento. Preso in mano con “calma aristocratica” – sono le sue parole – il proprio mazzetto, scartò alcune figurine doppie e le gettò con “noncuranza” verso il compagno “ormai alle corde”. “Queste te le regalo, prendile – disse con aria magnanima, altezzosa e falsamente benevola – quelle che hai rubato rendile e sparisci”.
Fu la sua grande vittoria – dice – il trionfo della padronanza di sé di fronte all’avversario sconfitto e umiliato. “Devo ammettere però – aggiunge – che, appena messo alla porta il malandrino con un garbo velato da sottile sadismo, sentii subito la mancanza della soddisfazione più corposa di dargli quattro ceffoni sul muso e farlo rotolare giù dalle scale”. Questo ricordo, in cui l’autoironia stempera un ostentato narcisismo, rende evidente l’antinomia tra il godimento feroce della vittoria strappata con la forza in un “corpo a corpo” in cui non è certo che l’avversario sopravviva abbastanza per riconoscerla tale e la superiorità morale di una vittoria troppo sottile per risultare gustosa.
Nello stesso modo in cui nel ragionamento astratto la vittoria si fondava su una sconfitta preliminare, nel ricordo il piacere “più raffinato” è pagato con uno svuotamento di godimento. Il suo desiderio s’incastra, in entrambi i casi, nel vicolo cieco dell’impossibilità di avere tutto. Potremmo dirgli che è necessario perdere qualcosa, ma l’ossessivo non la pensa così.
Un altro dettaglio completa il quadro. Commentando il sogno precisa che la mano del “negro” era guantata, non solo per nascondere il pugnale, ma anche per proteggersi dallo schizzo di sangue che sarebbe sprizzato dalle carni della donna quando, secondo il suo disegno, l’avesse colpita. A questo proposito gli viene in mente un passaggio degli Elisir del diavolo di Hoffmann in cui Medardo, sotto le mentite spoglie di Leonardo, è al vertice della sua parabola di perversione e di crimine.
Quando tutto è oramai pronto per la cerimonia nuziale con Aurelia, ovvero quando sta per raggiungere l’oggetto del suo desiderio, la derisione beffarda del sosia, che passa sotto la sua finestra, risveglia in lui, in modo irresistibile, gli spiriti dell’inferno. Come obbedendo all’impulso dettato dal loro irresistibile potere, estrae sogghignando rabbiosamente il coltello omicida e vibra con decisione il colpo, mentre Aurelia scivola a terra e la mano colpevole s’inonda di sangue. Solo il seguito della storia rivela che quel sangue era il suo, che nella foga del gesto si era ferito senza accorgersi e che Aurelia era salva.
Il nostro soggetto dice che aveva letto questo passaggio con una sensazione mista di piacere voluttuoso e di sgomento. Il gesto di colpire Aurelia gli sembrava incomprensibile. Nulla nella trama poteva, a suo parere, giustificarlo, ma ne sentiva l’ineluttabilità nella sorpresa che lo lasciava a fiato sospeso.
Anche la soluzione, con cui Hoffman fa sapere al lettore che Aurelia è salva, gli sembra insufficiente e gratuita.
L’esito tuttavia era perfetto: Medardo credeva di averla uccisa, mentre in verità aveva solo ferito se stesso. Soluzione ideale per l’ossessivo che vorrebbe consumare e distruggere l’oggetto e al tempo stesso preservarlo per evitare la colpa legata al gesto fatale e senza ritorno.
Il carattere incondizionato del desiderio dell’ossessivo rivela così il suo aspetto distruttivo, racchiuso nell’impulso a passare una soglia senza ritorno, ad appagarsi una volta per tutte.
“Volevi farlo”, l’urlo scandalizzato e sgomento che lancia nel sogno è rivolto a se stesso, contro colui che agendo avrebbe compiuto il gesto definitivo e la cui mano è stata fermata.
E’ rivolto contro la parte di sé che con naturalezza perversa riconosce l’impulso sadico del proprio desiderio. Come l’alter ego – che nel sogno, raffigurato dal negro, segna la divisione soggettiva – non può portare a segno il colpo, ovvero appagare a pieno il desiderio senza conseguenze irreparabili, così non può neppure essere eliminato completamente: viene rudemente buttato fuori dall’ascensore, ma non ucciso.
L’ossessivo, come è noto, sogna che la sua vita si svolga come il funzionamento di una macchina, governata da regole che riempiono di sé il reale.
Su questo modello si realizza la sua strategia volta a mettere fuori gioco il desiderio. Strategia destinata a fallire se, come abbiamo visto, l’eliminazione coincide con la realizzazione assoluta del desiderio.
In tal modo il punto di arresto rispetto alla distruzione dell’altro, che è rappresentato nel nostro caso dalla mancata uccisione del negro, o dalla violenza fisica risparmiata al compagno di giochi, o ancora dall’impossibilità di vincere senza perdere, determina una situazione non risolta che tiene il soggetto in sospeso.
L’impossibilità di portare a fondo il colpo nel realizzare il desiderio è ciò che, in ultima istanza, mantiene in vita il desiderio e al tempo stesso lascia posto ogni volta all’inquietudine che tutto possa di nuovo ricominciare.